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Tratteggiato dal titolare Ferraiuolo nelle rispettose note di copertina come distaccato "bon vivant", il trombettista tedesco Johannes Faber è provvisto di spirito certamente eclettico se da anni svolge anche una parallela attività di cantante d'opera, ma già nel suo ambito può vantare collaborazioni con personaggi quali Mal Waldron o Billy Cobham. E' inoltre uomo di sottili interessi spirituali, come fa intendere il suo contributo all'impostazione dell'album con il proprio brano Artnam, speculare del vocabolo Mantra, per felice casualità a sua volta titolo di un'antica composizione del pianista.
Insomma, la "mistica degli incontri" evocata dal titolare come suggestivo legante di questa partnership (gratificata peraltro anche di una "benedizione" del patriarca e maestro John Taylor) prende forma nella quinta incisione del pianista napoletano (di cui si è omesso di citare i fruttuosi incontri con Tony Scott, Massimo Urbani e Franco D'Andrea tra gli altri, nonché la fertile attività come compositore e musicista di teatro), ma apparentemente aliena da esoterismi rende piuttosto omaggio a un collaudato e più che prudente senso del jazzare, entro schemi puliti e revisione di forme note. Si fa certo apprezzare il tocco di Faber, scultore di scalpello gentile che predilige le forme smusse, così come le dilatazioni calligrafiche di Ferraiuolo (particolarmente espresse in Sud), ma le traversata multi-stile (Letter to E.G.) non esplicita poi così ampio respiro, così come la citazione chopiniana (Prelude C min) è trattenuta da manierismo timido.
Procedendo lungo umori non radicalmente in contrasto, si culmina verso la trance dalle tensioni incalzanti della bigemina Mantra/Artnam (appunto a firma dei due solisti) in cui dovrebbe condensarsi lo spirito dell'album ma che mai davvero decolla (emozionalmente e compositivamente) - un'esperienza senz'aspirazioni sovversive, ma che almeno a valutare lo stato esecutivo, limpido e regolare, del quartetto coinvolto sancisce il "silver standard" di un certo mainstream europeo.
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La dimensione del piano trio si addice a perfezione al talento del pianista napoletano Fausto Ferraiuolo classe 1965, ora figlio adottivo in terra ligure. E questa sua ultima produzione per l'Abeat conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto questa formula gli sia congeniale. D'altronde la sua formazione passa attraverso gli studi accanto a musicisti come Franco D'Andrea ed Enrico Pieranunzi veri riferimenti oggi, non solo in loco ma anche a livello internazionale, del piano trio. Ferraiuolo tra l'altro è alla sua quarta produzione discografica, quindi è già un musicista navigato che dispiega le sue qualità in crescendo ad ogni appuntamento discografico, pur muovendosi in ambiti mainstream con l'inevitabile rischio di essere superficialmente etichettato come già sentito o come emulo di qualche altro grande nome del passato. Ed in verità ad un primo ascolto, magari un po' distratto, è facile liquidare il tutto senza troppa considerazione, salvo poi, ad un ascolto più attento, accorgersi effettivamente di trovarsi al cospetto non di una produzione qualunque ma di un lavoro accurato e ben calibrato pur nell'ambito di un jazz che si fa ascoltare con piacere e senza grande impegno.
Il tocco del pianista è raffinato e preciso e la sua arte regala momenti intensi e di assoluta introspezione anche grazie alla azzeccata compagnia di cui Ferraiolo si fregia ovvero il contrabbasso di Piero Leveratto e la batteria di Alfred Kramer, musicisti che lo affiancano condividendone opportunamente la filosofia musicale che predilige, nella maggior parte dei casi, lo schema classico dell'esposizione del tema e della conseguente parte dedicata all'improvvisazione sviluppata sempre e comunque nell'ambito delle coordinate armoniche del tema in questione.
Tra gli undici brani che compongono la selezione di questo Changing Walking, quasi a voler avvalorare la tesi prima esposta, si segnalano in special modo quelle dall'incedere lento, da ballad, in cui il pianista ha mondo di esprimere il suo lato romantico e più intimo, come in 1000 Miles Voyage e If I Could See You, dove il trio riesce a catturare magicamente l'attenzione di chi ascolta e il tutto si replica anche nella struggente e intimista Exodus, ultima traccia del cd, dove Ferraiuolo è da solo al pianoforte dedito ad una delle sue composizioni di cui peraltro questo cd è ampiamente ricco. In una sola occasione, Improtune, il trio abbandona questi territori per cimentarsi in ambiti meno prevedibili e l'azzardo risulta ben riuscito al punto che viene da chiedersi se si tratti di un'innocente evasione o di un primo approcco a tematiche già prefissate per il futuro?
Giuseppe Mavilla per Jazzitalia
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